Thursday, April 25, 2024

L’Alzheimer’s Association (la potente Associazione americana di volontariato non-profit che dedica le proprie risorse al supporto dei famigliari ed alla ricerca sull’Alzheimer) nel ’99 ha lanciato lo slogan «Diagnosing Dementia: See It Sooner» (diagnosticare la demenza: vederla prima). Questo slogan nasce dal fatto che ancora oggi ci si rivolga ai servizi sanitari a malattia conclamata o avanzata, solo quando i disturbi del comportamento (agitazione, insonnia, deliri, apatia, scarsa collaborazione o aggressività fisica o verbale) sono evidenti; questo avviene abitualmente dopo 2-4 anni di malattia. Complici di questo ritardo alcuni pregiudizi sull’invecchiamento, ma anche atteggiamenti negativi da parte degli operatori sanitari stessi. I primi tendono a confondere l’invecchiamento normale con la prospettiva inevitabile di un declino delle facoltà cognitive, della memoria in particolare: si ritiene che rientrino nella normalità, quando si è vecchi, sia la perdita di autonomia che quella della capacità di far funzionare correttamente il proprio cervello. Nulla di più errato. Infatti è vero il contrario per la maggioranza degli anziani: solo il 7% degli anziani con meno di 65 enni ha problemi di demenza!
Quanto all’atteggiamento di alcuni operatori sanitari, l’assenza di cure efficaci e risolutive renderebbe inutile e dispendioso effettuare indagini diagnostiche. A questo riguardo è invece importante ed eticamente/professionalmente corretto svincolare il diritto alla diagnosi dalle prospettive di cure miracolose. Quest’ ultima considerazione vale, non solo per le demenze (in particolare la malattia di Alzheimer), ma anche per tutte le malattie croniche che affliggono le popolazioni che hanno il privilegio di invecchiare a lungo.

La diagnosi è un diritto
La prospettiva corretta è quella di vedere la diagnosi, oltre che come diritto del paziente, come indispensabile premessa alla costruzione di un’alleanza terapeutica tra malato, famigliari, e personale sanitario. Quanto più precoce è la diagnosi e tanto maggiormente anche il malato potrà essere attore delle scelte terapeutiche assistenziali che lo riguardano. Soprattutto sarà possibile condividere scelte terapeutiche ed assistenziali adatte al malato ed alla famiglia. Quest’ultima oggi si sente ancora troppo spesso sola nell’affrontare il lungo decorso della malattia di Alzheimer. Abbiamo la fortuna di disporre di una discreta rete assistenziale (le cosidette Uva, Unità Valutative Alzheimer), ma è necessario che i malati ed i famigliari vi si affidino il più presto possibile; solo cosi potranno essere alleggeriti -grazie al contributo di medici, infermieri, educatori, assistenti sociali, psicologi – il peso assistenziale ed il senso di solitudine.
Oggi è ampiamente risaputo che la malattia di Alzheimer non coinvolge solo il singolo ma di riflesso anche il nucleo famigliare poiché il malato di Alzheimer, specie nelle fasi avanzate, necessita di una continua assistenza. Sono circa 8 famiglie su 10 in Italia che preferiscono sostenere personalmente l’ammalato assumendosi integralmente i costi dei trattamenti e dedicandogli all’incirca 7 ore di assistenza diretta, ossia di pura cura, e 11 ore di sorveglianza ossia di tempo trascorso con il malato.

Orazio Zanetti
Centro Alzheimer – Irccs Fatebenefratelli