Friday, March 29, 2024

Gli anziani sono le “altre” vittime della precarietà . Diventeranno presto anche una questione sociale. Per ora rompono il silenzio inviando lettere ai giornali, raccontando, con imbarazzi, la storia del proprio declino personale. Mentre il dibattito politico-sindacale è tutto incentrato sul necessario prolungamento dell’età  lavorativa per garantire la sostenibilità  finanziaria del sistema previdenziale, pressato proprio dalle uscite dal lavoro di una popolazione relativamente giovane, quella con un’età  compresa tra i 55 e i 60 anni.

Le stime convergono: sono circa 6-700 mila i lavoratori italiani che superati i quarant’anni, una volta perso il posto, non riescono più a ricollocarsi. Soprattutto per chi viene da un’azienda di grandi dimensioni. E’ un fenomeno che attraversa tutta la vecchia Europa, ma che in Italia è già  più preoccupante perchà© da noi il tasso di occupazione tra i lavoratori “anziani” (50-64 anni) è già  ai minimi: poco più del 38% contro il 72% della Svezia o il 65 della Danimarca. Nell’Agenda di Lisbona scritta nel marzo del 2000, l’Unione europea si è data come target quello di portare l’occupazione tra gli ultra 55-enni al 50% nel 2010. Per noi è un miraggio visto che solo uno su tre, in quella fascia di età , continua a lavorare.

Questa storia collettiva comincia, quasi un ventennio fa, a cavallo tra la fine degli anni Ottanta i primi anni Novanta, con il profondo processo di ristrutturazione della grande industria italiana. Dice Bruno Contini, economista dell’Università  di Torino e animatore del “Labor-Laboratorio Riccardo Revelli”: “Se l’invecchiamento della popolazione è un prodotto della demografia, non è detto che l’invecchiamento della forza-lavoro dipenda solo da quella”. La tesi è che le aziende si sono “liberate” della vecchia e costosa forza lavoro, ricorrendo a mani basse a tutti gli strumenti possibili, dai prepensionamenti alla mobilità  lunga. Poi hanno assunto un po’ di giovani, molto di meno dei posti liberati, smentendo l’idea che per aumentare l’occupazione giovanile debbano andarsene in pensione il prima possibile i lavoratori più anziani. I nuovi assunti sono stati pagati anche molto di meno e il turn over tra loro è stato – come sappiamo – intensissimo. I costi sono un fattore decisivo in questa storia. Lo ha dimostrato proprio un recente studio di Labor: attualmente impiegare un lavoratore anziano costa all’azienda circa il 60% in più di un giovane di pari qualifica. Vent’anni fa il divario era decisamente più contenuto, intorno al 30%. Più in dettaglio: fatta 100 la retribuzione di un over 45 nel settore privato, quella media dei giovani under 25, a parità  di mansioni era 71 nel 1985, è scesa a 62 nel 1991 ed è precipitata a 59 all’inizio del nuovo secolo.

Le imprese hanno ridotto i costi, ma hanno perso professionalità  con conseguenze anche sul livello di competitività . Smentendo, nel medio periodo, un altro luogo comune, secondo cui i lavoratori più anziani sarebbero anche quelli meno produttivi. “Quello che sappiamo – ha scritto Tito Boeri, professore di economia del lavoro alla Bocconi – non conferma affatto l’opinione comune. L’età  riesce a spiegare molto poco delle differenze nella performance lavorativa di diversi individui e sono molti gli studi che documentano produttività  elevate sopra i 55 anni, soprattutto per mansioni che richiedono maggiore esperienza e capacità  verbali”. Tant’è che molti pensionati continuano a lavorare: secondo le statistiche (comunque viziate dall’ampiezza del lavoro “grigio”) sono circa 900 mila, pari a circa il 7,6% del totale della categoria. Dunque non si va in pensione perchà© non si è più in grado di svolgere un’attività  lavorativa. E spesso non ci si va nemmeno per scelta. A questa conclusione è giunta la prima fase dell’indagine Share (Survey of health ageing and retirement in Europe) promossa nel 2004 dall’Unione europea.

Fonte: Repubblica.it